Le fotografie che scattiamo e conserviamo sono considerate da sempre uno scrigno della memoria al quale attingere per rivivere stati d’animo provati in passato e sui quali riflettere i sentimenti del presente. Ma oggi la fotografia serve davvero a ricordare?
di Antonella Scaccia*
Le fotografie ci permettono di andare oltre il tempo facendoci, spesso, ripercorrere un viaggio nel passato e generando in noi una varietà di sensazioni: gioia, malinconia, tristezza, entusiasmo. Guardare una vecchia fotografia è un po’ come tornare a certi momenti passati; entriamo in quegli stessi stati emotivi e ne viviamo di nuovi. A volte, le fotografie ci avvicinano a persone che non ci sono più. Anche qui l’impatto emotivo è molto forte: la fotografia ci aiuta a rivivere e a far perdurare un legame che nel qui e ora non è più esperibile. Spesso raffigurano persone che riteniamo significative o elementi che corrispondono a eventi o momenti importanti della nostra vita; sono ricordi che dureranno nel tempo e creeranno quella successione di fatti che costituirà la nostra autobiografia.
Come affermava Roland Barthes, saggista e semiologo francese: “Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente”.
RIPETERE L’IRRIPETIBILE
Ogni fotografia racchiude in sé, quindi, un significato affettivo ed emotivo che dipende da chi la osserva: tale significato si genera in modo spontaneo proprio nel momento in cui la persona guarda quella foto. Pertanto, soprattutto quando si tratta di una fotografia non scattata da chi osserva, il senso può cambiare ed essere diverso da quello che il fotografo voleva trasmettere poiché il significato emotivo dell’immagine è fortemente influenzato dalla percezione individuale e dall’esperienza di vita di chi osserva.
Rivedersi in una fotografia dopo tanto tempo, spesso anni, è una sensazione davvero potente. È un atto che innesca un vortice di pensieri ed emozioni coinvolgenti.
Ma oggi viviamo davvero quei momenti “fotografabili” con solennità e parsimonia come accadeva in passato? O siamo totalmente presi dal fotografare compulsivamente e indiscriminatamente tutti gli eventi della nostra vita senza essere effettiva- mente connessi con la nostra realtà?
MEMORIA E FOTOGRAFIA
Un’indagine svolta nel 2013 dalla psicologa cognitiva Linda Henkel ha messo in evidenza gli effetti negativi sulla memoria derivanti dallo scattare fotografie. Questo studio ha rilevato come le persone che partecipavano a un evento e scattavano fotografie avevano un ricordo peggiore degli oggetti fotografati rispetto a chi non aveva a disposizione una fotocamera. Dunque, è emerso che scattare fotografie affievolisca la capacità di ricordare proprio come se, inconsciamente, la persona pensasse che avendo a disposizione la fotografia, non abbia bisogno di ricordare poiché può rinnovare l’esperienza guardando l’immagine quando lo desidera.
Pertanto, sembrerebbe che fotografare continuamente non ci permette di vivere a pieno la situazione poiché la facile disponibilità di immagini possa alleggerire l’impegno nell’esserci di quel momento. Tale ipotesi era stata avvalorata anche da un altro studio svolto nel 2011 (Sparrow, Lui, & Wegner) in cui è emerso che il gruppo di studenti che, dopo una richiesta specifica di lavoro al computer, credeva che i file lavorati venissero cancellati ha dimostrato di avere maggior memoria dei contenuti di cui si è occupato, a differenza di coloro che sapevano che quegli stessi file sarebbero rimasti in memoria. Pertanto, se sappiamo di poter usufruire di una sorta di “memoria esterna”, tendiamo a dedicare uno sforzo minore della nostra memoria interna per ricordare.
Ne consegue, quindi, che il fatto di scattare molte fotografie non solo non ci fa godere di tutte le emozioni del momento e non ci permettere di essere completamente presenti nella situazione ma, oltretutto, non ci permette di trattenere le informazioni nella memoria e, quindi, di ricordare.
IL RISCHIO DELLA DIPENDENZA
Se scattare troppe foto indebolisce la memoria, questo atteggiamento, a volte, può persino degenerare in una sorta di dipendenza. La fotografia non rappresenta più una documentazione che ha una sua utilità ma, piuttosto, una dimostrazione di ciò che si fa e di ciò che si ha: si scattano foto per dimostrare agli altri quanto si vale, riproducendo un infinito numero di immagini di sé che creano un’apparenza di ciò che, forse, si vorrebbe essere. Come se si avvertisse un fortissimo bisogno di dover dimostrare a tutti di condurre una vita ricca di cose belle e speciali: un’ossessione che nasconde forse il desiderio di sentirci pieni, produttivi, soddisfatti.
Scattiamo, memorizziamo con poco impegno tramite una memoria che non è la nostra e condividiamo per affermarci attraverso l’approvazione dell’altro. Ricerchiamo, in fondo, di essere accettati e riconosciuti. Aspiriamo a una perfezione che non esiste attraverso una realtà fatta di filtri e ci perdiamo, invece, quel momento eterno, l’emozione di pancia, il ricordo di quell’istante unico che non avrà luogo mai più in quello stesso modo.
* Psicologa clinica specializzanda in Psicoterapia breve ad Approccio Strategico, esperta in Fototerapia